Lo sfondamento del fronte italiano
nei settori di Plezzo e Tolmino in Carnia, nei pressi di Caporetto, avvenuto il
24 ottobre 2017 ad opera di un’armata austro- tedesca, mise seriamente a
repentaglio la tenuta della difesa italiana nel corso del primo conflitto
mondiale. L’offensiva austriaca aveva l’obiettivo strategico di conquistare la pianura
friulana-veneta e possibilmente proseguire fino all’ occupazione di Milano. Il Generale
Cadorna, poco amato dai soldati e criticato dai suoi Generali per la condotta statica
delle operazioni, di fronte alla rottura della linea difensiva, ordinò, dapprima,
il ripiegamento delle armate del fronte nord-orientale sul fiume Tagliamento e
quindi la loro ritirata sul Piave. Egli ritenne, correttamente, che il sistema
difensivo, Trentino - Monte Grappa - fiume Piave, fosse il baluardo su cui organizzare
l’ultima difesa. Su queste posizioni il fronte si accorciava considerevolmente
(di circa 300Km.) e si ancorava al massiccio del Monte Grappa che poteva
fungere da perno in una eventuale manovra di contrattacco, tesa alla riconquista
del terreno perduto. Il ripiegamento del fronte causò circa 11mila morti, 29
mila feriti, oltre 300 mila prigionieri e altrettanti sbandati e profughi che
fuggirono dalle loro terre occupate dagli austro-tedeschi. L’invasione del
Friuli sconvolse tutta la nazione. Cadorna venne sostituito dal Gen. Diaz, si
formò un nuovo Governo. La sconfitta
militare evidenziò, tra l’altro, la fragilità delle istituzioni del nuovo Stato
unitario e la loro difficoltà nell’alimentare lo sforzo bellico. Dal punto di
vista militare, era necessario ripensare a una nuova strategia difensiva, non
più basata sulla difesa ad oltranza e sulle “spallate” effettuate con l’impiego
a massa delle truppe per scardinare le posizioni dello schieramento avversario, ma concepire una difesa elastica, su
unità leggere in grado di contrattaccare, difendere o arretrare secondo le
circostanze, sostenute dall’impiego massiccio dell’artiglieria. Occorreva
valorizzare il soldato con un trattamento più umano e con risorse adeguate alla
grave situazione. L’Esercito era demoralizzato, sfinito per i lunghi anni
passati in trincea, privo di mezzi e del ricambio naturale di uomini.
Dopo le vicende di Caporetto il
Paese intero, ancora diviso nella diatriba neutralità ed interventismo, fu
chiamato a fornire il massimo sostegno, morale, economico, politico alle truppe
che combattevano al fronte. Avvertendo il pericolo che anche il Veneto potesse
seguire le sorti del Friuli, fu deciso di reclutare i diciottenni del 1899,
trecentomila giovani della classe non ancora chiamata alle armi. Essi furono
inseriti tra le file dei veterani portando nuova linfa vitale ed incosciente
entusiasmo. Annoterà il Gen. Diaz, con una punta di retorica: «Li ho visti i
Ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in
esigua schiera. Cantavano ancora». Con l’ estrema difesa sul Piave si combatteva per il futuro della patria. Tra
le due sponde del fiume c’era la vita o la morte, la vittoria o la sconfitta.
Nell’immaginario collettivo il Piave assunse sembianze umane: “mormorava” quasi
per manifestare la sua vicinanza ai soldati, travolgeva con l’impeto dei suoi
flutti i nemici che lo attraversavano, accoglieva pietosamente il sangue dei caduti che nelle sue acque
trovavano sepoltura. Dal novembre 1917 all'estate 1918, su questo fiume si
svilupparono quel complesso di azioni risolutive che portarono alla battaglia
finale di Vittorio Veneto.
Sulla sconfitta di Caporetto sono
stati scritti decine di libri, mentre nessuna
pubblicazione ha rievocato finora le gesta eroiche dei soldati italiani sul
Piave e sul Grappa. Probabilmente la sconfitta di Caporetto ispirò maggiormente
gli storici rispetto alla successiva grande vittoria. Pertanto, è doveroso ricordare che le
battaglie sul Piave non furono una “leggenda”. Esse rappresentarono la riscossa
morale e materiale di tutto il Paese, che con sacrifici indescrivibili, al
fronte, nelle città, nelle campagne, lottò unito per la salvezza della patria.
Sul Piave morirono veneti e lucani, napoletani e genovesi. Altri soldati,
provenienti da ogni regione d’Italia, erano caduti nei precedenti
combattimenti.
La storia ufficiale non ha ancora
approfondito del tutto le motivazioni della vittoria. Questa non scaturì dal miglioramento del vitto alle
truppe, mai tanto scarso come in quei giorni e nemmeno dai turni di riposo ai
combattenti che non furono mai concessi. Non fu il risultato delle decisioni
prese dal nuovo Governo (i fanti non sapevano neppure che quello vecchio era
caduto) e nemmeno il frutto dell’intervento militare delle truppe alleate che
entrarono in linea ai primi di dicembre, dopo aver visto che gli italiani potevano
fronteggiare da soli il nemico. Non fu la conseguenza della potenza economica
della nazione che era completamente a terra. Certamente, dopo anni di
confusione e paura, tutti gli italiani compresero che si stava combattendo la
guerra di casa. Si doveva difendere la propria terra, salvaguardare le proprie
famiglie, impedire che alle donne venisse fatto quello che stavano subendo le
friulane e le venete al di là del Piave e del Grappa. Era una guerra che ai
nostri nonni, fanti contadini, abituati a badare alla terra e alla famiglia,
risultò quasi naturale, inevitabile. La rassegnazione di un “popolo calpestato
e deriso” si trasformò in una prodigiosa forza morale che coagulò gli sforzi di
tutti, combattenti, donne, giovani ed anziani, nell’amor di patria e segnò la nascita vera della
nostra nazione.