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martedì 1 gennaio 2019

Dopo un sconfitta militare Vittorio Veneto



Lo sfondamento del fronte italiano nei settori di Plezzo e Tolmino in Carnia, nei pressi di Caporetto, avvenuto il 24 ottobre 2017 ad opera di un’armata austro- tedesca, mise seriamente a repentaglio la tenuta della difesa italiana nel corso del primo conflitto mondiale. L’offensiva austriaca aveva l’obiettivo  strategico di conquistare la pianura friulana-veneta e possibilmente proseguire fino all’ occupazione di Milano. Il Generale Cadorna, poco amato dai soldati e criticato dai suoi Generali per la condotta statica delle operazioni, di fronte alla rottura della linea difensiva, ordinò, dapprima, il ripiegamento delle armate del fronte nord-orientale sul fiume Tagliamento e quindi la loro ritirata sul Piave. Egli ritenne, correttamente, che il sistema difensivo, Trentino - Monte Grappa - fiume Piave, fosse il baluardo su cui organizzare l’ultima difesa. Su queste posizioni il fronte si accorciava considerevolmente (di circa 300Km.) e si ancorava al massiccio del Monte Grappa che poteva fungere da perno in una eventuale manovra di contrattacco, tesa alla riconquista del terreno perduto. Il ripiegamento del fronte causò circa 11mila morti, 29 mila feriti, oltre 300 mila prigionieri e altrettanti sbandati e profughi che fuggirono dalle loro terre occupate dagli austro-tedeschi. L’invasione del Friuli sconvolse tutta la nazione. Cadorna venne sostituito dal Gen. Diaz, si formò un nuovo  Governo. La sconfitta militare evidenziò, tra l’altro, la fragilità delle istituzioni del nuovo Stato unitario e la loro difficoltà nell’alimentare lo sforzo bellico. Dal punto di vista militare, era necessario ripensare a una nuova strategia difensiva, non più basata sulla difesa ad oltranza e sulle “spallate” effettuate con l’impiego a massa delle truppe per scardinare le posizioni dello schieramento  avversario, ma concepire una difesa elastica, su unità leggere in grado di contrattaccare, difendere o arretrare secondo le circostanze, sostenute dall’impiego massiccio dell’artiglieria. Occorreva valorizzare il soldato con un trattamento più umano e con risorse adeguate alla grave situazione. L’Esercito era demoralizzato, sfinito per i lunghi anni passati in trincea, privo di mezzi e del ricambio naturale di uomini.
Dopo le vicende di Caporetto il Paese intero, ancora diviso nella diatriba neutralità ed interventismo, fu chiamato a fornire il massimo sostegno, morale, economico, politico alle truppe che combattevano al fronte. Avvertendo il pericolo che anche il Veneto potesse seguire le sorti del Friuli, fu deciso di reclutare i diciottenni del 1899, trecentomila giovani della classe non ancora chiamata alle armi. Essi furono inseriti tra le file dei veterani portando nuova linfa vitale ed incosciente entusiasmo. Annoterà il Gen. Diaz, con una punta di retorica: «Li ho visti i Ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora». Con l’ estrema difesa sul Piave  si combatteva per il futuro della patria. Tra le due sponde del fiume c’era la vita o la morte, la vittoria o la sconfitta. Nell’immaginario collettivo il Piave assunse sembianze umane: “mormorava” quasi per manifestare la sua vicinanza ai soldati, travolgeva con l’impeto dei suoi flutti i nemici che lo attraversavano, accoglieva pietosamente  il sangue dei caduti che nelle sue acque trovavano sepoltura. Dal novembre 1917 all'estate 1918, su questo fiume si svilupparono quel complesso di azioni risolutive che portarono alla battaglia finale di Vittorio Veneto.
Sulla sconfitta di Caporetto sono stati scritti decine di libri, mentre  nessuna pubblicazione ha rievocato finora le gesta eroiche dei soldati italiani sul Piave e sul Grappa. Probabilmente la sconfitta di Caporetto ispirò maggiormente gli storici rispetto alla successiva grande vittoria.  Pertanto, è doveroso ricordare che le battaglie sul Piave non furono una “leggenda”. Esse rappresentarono la riscossa morale e materiale di tutto il Paese, che con sacrifici indescrivibili, al fronte, nelle città, nelle campagne, lottò unito per la salvezza della patria. Sul Piave morirono veneti e lucani, napoletani e genovesi. Altri soldati, provenienti da ogni regione d’Italia, erano caduti nei precedenti combattimenti.
La storia ufficiale non ha ancora approfondito del tutto le motivazioni della vittoria. Questa  non scaturì dal miglioramento del vitto alle truppe, mai tanto scarso come in quei giorni e nemmeno dai turni di riposo ai combattenti che non furono mai concessi. Non fu il risultato delle decisioni prese dal nuovo Governo (i fanti non sapevano neppure che quello vecchio era caduto) e nemmeno il frutto dell’intervento militare delle truppe alleate che entrarono in linea ai primi di dicembre, dopo aver visto che gli italiani potevano fronteggiare da soli il nemico. Non fu la conseguenza della potenza economica della nazione che era completamente a terra. Certamente, dopo anni di confusione e paura, tutti gli italiani compresero che si stava combattendo la guerra di casa. Si doveva difendere la propria terra, salvaguardare le proprie famiglie, impedire che alle donne venisse fatto quello che stavano subendo le friulane e le venete al di là del Piave e del Grappa. Era una guerra che ai nostri nonni, fanti contadini, abituati a badare alla terra e alla famiglia, risultò quasi naturale, inevitabile. La rassegnazione di un “popolo calpestato e deriso” si trasformò in una prodigiosa forza morale che coagulò gli sforzi di tutti, combattenti, donne, giovani ed anziani,  nell’amor di patria e segnò la nascita vera della nostra nazione.