È in nome del principio
d'eguaglianza, che questi due balzelli
(prelievo del 5 e del 10% su assegni di pensione che superano
rispettivamente i 90.000 e 150.000€)
sono stati annullati. La prima volta perché ne venivano colpiti i soli
dipendenti pubblici e non anche i lavoratori autonomi o privati. La seconda
volta perché a soffrirne erano i pensionati pubblici, lasciando indenni le
altre categorie previdenziali. Da qui la discriminazione: insomma, una sorta
d'accanimento dello Stato contro gli uomini (e le donne) dello Stato. Per di
più doloso, dato che in origine il prelievo colpiva tutti, ma il Parlamento poi
lo circoscrisse ai burocrati con una penna d'oca in mano. Nel giudizio della
Consulta risuona perciò una massima che i rivoluzionari francesi scolpirono
nella Déclaration del 1789: l'universalità della tassazione. Significa che in
uno Stato di diritto il fisco non può distinguere tra figli e figliastri. Ma
non significa che i ricchi debbano pagare quanto i poveri: ne è prova il
tributo del 3% su tutti i redditi superiori a 300 mila euro, su cui il
tribunale costituzionale non ha avuto niente da ridire. In altre parole, il
principio d'eguaglianza s'applica agli eguali, non ai diseguali. E se lo Stato
italiano avesse praticato l'equità fiscale, ci avrebbe pure guadagnato. Da qui
un passaggio che si ripete pari pari in ambedue le sentenze incriminate: «Il
risultato di bilancio avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo
Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei
cittadini e di solidarietà economica». (Corriere della sera del 30 giu. ’13).
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